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Iniezioni di geni contro la cecità

Modello elicoidale di Dna (in struttura architettonica) Iniezioni di geni contro la cecità La terapia per l’amaurosi congenita ha festeggiato un anno, migliorata la visione in tre pazienti


24 agosto 2009 – Iniezioni sotto la retina a base di geni sani migliorano la vista se si è affetti da una malattia ereditaria come l’amaurosi congenita di Leber. Questa terapia, sebbene ancora sperimentale, ha dato risultati incoraggianti negli Usa: è stata parzialmente curata geneticamente la cecità, tanto che si è festeggiato un anno di miglioramento visivo.Come viaggiano i segnali retinici in seguito alla stimolazione luminosa
Ad essersi sottoposti alla terapia sono tre pazienti (di 22, 24 e 25 anni) nei quali era assente una proteina essenziale per la vista, prodotta grazie a un gene chiamato RPE65 (che in loro era mutato). Senza tale sostanza la visione è impossibile perché i fotorecettori della retina – le cellule sensibili alla luce – non possono nutrirsi di vitamina A.
Spiega in una nota l’Università della Pennsylvania, che ha condotto la ricerca assieme all’Università della Florida e alla Massachusetts Medical School: “Per correggere questo difetto genetico, i ricercatori hanno individuato le regioni retiniche con i fotorecettori, difettosi ma intatti, e hanno iniettato copie sane del gene RPE65 sotto la retina. Un anno dopo una sola iniezione, i geni sani continuano a produrre questa proteina cruciale, aumentando la sensibilità retinica alla luce”. Mentre inizialmente si pensava che il miglioramento visivo diurno e notturno si esaurisse entro alcune settimane, in realtà si è rivelato più duraturo del previsto.

Leggi anche: “Combattere la cecità a colpi di geni“.
Referenza originale: “Human RPE65 Gene Therapy for Leber Congenital Amaurosis: Persistence of Early Visual Improvements and Safety at 1 Year” di Cideciyan AV, Hauswirth WW, Aleman TS, Kaushal S, Schwartz SB, Boye SL, Windsor EA, Conlon TJ, Sumaroka A, Pang JJ, Roman AJ, Byrne BJ, Jacobson SG., Hum Gene Ther. 2009 Jul 7. [abstract]. Lo studio è stato condotto grazie al sostegno del National Eye Institute (l’istituto governativo statunitense NEI).

Fonte: University of Pennsylvania School of Medicine

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